venerdì 20 maggio 2011

L'ultimo germoglio


Tema che ho scritto al liceo, l'argomento era il dialogo fra l'uomo e la Natura.

L'ULTIMO GERMOGLIO

<<Kody, stringi quel maledetto bullone!>> gridò il caposquadra sovrastando a stento il rumore delle macchine attive.

Kody si passò una mano guantata sulla fronte, asciugando il sudore misto al nero olio idraulico.
Cercò frettolosamente la giusta chiave tra quelle appese alla sua cintura; le gracili dita sfiorarono ogni appuntito o squadrato arnese da lavoro, giungendo in fine su quello giusto.
Staccò la chiave inglese e prese a stringere con decisione il bullone allentato.
<<Ecco, bravo, e assicurati che non ve ne siano altri!>> Sbraitò il caposquadra puntandogli contro l’indice.
Kody annuì distrattamente e si levò l’elmetto giallo passandosi poi le mani fra i lunghi ed arruffati capelli rossi.
Si guardò attorno facendo guizzare gli occhi verdi: viti, bulloni, chiodi; una fiumana di operai scorreva attorno a lui senza fare altro che controllarlo stato dell’infinito intreccio di tubature che correva lungo quei corridoi.
Ognuno lavorava per conto proprio, senza prestare la minima attenzione a coloro che gli stavano accanto, come fossero stati assorbiti e schiacciati da quella morsa di zannuti ingranaggi che i loro capi chiamavano “Fabbrica”.
Gli sguardi della gente attorno a Kody erano spenti, riflessi nei loro occhi si distinguevano solo le zaffate di gas sulfurei e l’acciaio brunito ed unto che riempivano i corridoi.
Non vi si leggevano sentimenti, non vi era la fiamma di una passione, né la luce di una speranza; erano parte di un sistema più grande di loro, e come pezzi difettosi di una macchina in continua evoluzione venivano sovente scartati e gettati via.
Sospirò sconsolato mentre torceva l’ennesima vite, la osservò vorticare ed infilzarsi lentamente nell’acciaio, ed in quel momento la invidiò, desiderò essere anche lui una semplice vite, non dover più provare alcun sentimento e rimanere eternamente ancorato al proprio freddo e metallico universo.
Una sirena suonò ed alcune luci presero a girare, dipingendo i corridoi con le loro tinte cremisi.
<<Finalmente la pausa…>> si disse concedendosi un sorriso tirato.
Gli altri operai deposero quasi all’unisono i propri attrezzi e si avviarono in fila indiana in direzione della sala mensa; Kody invece li ignorò ed andò ad affacciarsi ad una polverosa finestrella.
Oltre questa era possibile vedere il centro della fabbrica, nel quale tutte le tubature si riversavano.
Nel mezzo dell’enorme sala si trovava il reattore, talmente potente e luminoso da sembrare una liscia sfera incandescente.
Lo osservò a lungo, ma non riuscì a scorgerne i dettagli, vi vedeva al centro solo il proprio volto, riflesso dal vetro della finestra.
Quell’oggetto così misterioso e alieno pareva chiamarlo a sé, non poteva smettere di fissarlo, eppure era sempre stato così vicino a lui, sarebbe bastato voltarsi anche solo una volta in quei lunghi anni e guardare oltre una delle tante impolverate finestre.
Ora i tubi che ogni giorno percorreva, avvitando e svitando, non parevano più essere infiniti, ora sapeva che essi convergevano nel luminoso cuore della fabbrica, donandogli sostanza.
 Dunque anche il lavoro di Kody doveva avere un senso, uno scopo, tutti quei gesti meccanici che ripeteva ogni giorno non erano che un minuscolo tassello del mosaico, il cui unico scopo era quella luce, tenerla viva, permettere che continuasse a bruciare e brillare in eterno.
Non riusciva più a trattenersi, doveva vedere quella luce più da vicino, doveva poterne distinguere la vera forma, per sapere, se non altro, a cosa fosse servita la sua esistenza sino ad allora.
Si guardò attorno alla ricerca di una soluzione, e fu allora che vide per la prima volta una porta sulla parete destra, solo pochi metri prima dell’ingresso della mensa.
Sopra di essa vi era inchiodato un cartellino che recitava: “Ingresso riservato al personale autorizzato”.
Kody ignorò la restrizione e sgusciò silenziosamente oltre l’uscio, dietro quest’ultimo si snodava una scala a chiocciola completamente immersa nel buio.
Tentennò per qualche istante, non tanto per il timore di cadere, quanto per l’incertezza di non sapere cosa aspettarsi oltre la corolla di tenebre.
Si fece coraggio e trattenendo il respiro s’immerse nell’oscurità.
Una corrente d’aria spirava misteriosamente attraverso la tromba delle scale, facendo riecheggiare nel buio strani ululati.
I lugubri suoni, più Kody scendeva lungo i gradini, più parevano acquisire un tono umano, come i lamenti di un condannato, incapace di comprendere il motivo del suo penare.
Si sentiva peggio ad ogni passo, mentre l’angoscia cresceva; all’improvviso una luce prese a rischiarare nuovamente il percorso, trascinandosi via la disperazione che si era instillata nel suo animo.
Una porta analoga a quella dalla quale era passato poco prima lasciava filtrare alcuni timidi raggi di luce dalle sue fessure.
Ne afferrò la maniglia torcendola lentamente.
L’uscio pareva pesare molto e gli ci volle un grande sforzo per spalancarlo, dando un’ultima energica spinta capitombolò nella sala del reattore, mentre la porta dietro di lui sbatteva violentemente.
Si guardò attorno con aria stupita: fatta eccezione per la ragnatela di tubature che convergeva sul reattore, quella non pareva affatto la sala di una fabbrica.
Era totalmente diversa dalla sala spoglia e cupa che aveva scorto dalla finestrella impolverata: le pareti erano completamente ricoperte di arazzi e quadri d’ogni forma e dimensione, addossati ad esse, vi erano enormi scaffali colmi di libri di ogni sorta, e che ogni tanto ne eruttavano degli altri, costellando il pavimento di volumi.
Quest’ultimo era ricoperto da piastrelle nere e bianche che in modo del tutto casuale invertivano fra loro i propri colori.
Eppure c’erano ancora le tubature, c’era il luminoso reattore ed anche una fila di finestrelle venti metri più in alto.
Guardando appunto queste scorse la minacciosa figura del caposquadra che lo additava sbraitando muto dietro il distante vetro.
C’era poco tempo, ben presto le guardie avrebbero fatto irruzione nella sala e lo avrebbero portato via.
Corse verso il reattore ignorando con fatica gli straordinari fenomeni che si susseguivano attorno a lui.
Lo raggiunse, il pavimento sotto i suoi piedi continuava a mescolare bianco e nero freneticamente, come a testimoniare la sua confusione.
Pareva ancora essere una grande sfera incandescente, anche da quella distanza l’unica cosa che poteva scorgere era la propria immagine, miracolosamente riflessa nel mezzo di quella luce.
Rimase qualche istante a contemplarla senza comprenderne il senso, poi il riflesso cambiò, mostrandogli il volto di un’altra persona.
Si voltò di scatto, temendo si trattasse di una delle guardie, giunta per arrestarlo, ma era ancora da solo.
Quando si voltò nuovamente verso la sfera su di essa stavano scorrendo una serie infinita di volti, che mano a mano fluivano più velocemente.
Le immagini si fecero talmente veloci da confondersi fra loro, e la fusione di miliardi di tratti differenti ricondusse a quelli di Kody.
L’improvviso rumore di passi che scendevano le scale e le successive grida delle guardie interruppero il filo dei suoi pensieri.
Il tempo parve rallentare mentre tendeva la mano verso la luce, le voci dei suoi aguzzini gli giunsero distorte, ed ogni loro passo parve rimbombare.
Non appena le sue dita toccarono la superficie liscia del reattore tutto attorno si diffuse un’intensa luce bianca ed il mondo scomparve per qualche istante.
Kody chiuse gli occhi e si schermò il volto con le braccia, nel disperato tentativo di non farsi accecare.
Lentamente il bagliore si affievolì, fino a scomparire; Kody riaprì timorosamente gli occhi.
Aveva lo sguardo rivolto verso l’alto, dritto puntato contro l’infinito cielo.
Non lo aveva mai visto prima, e ne fu spaventato, esso infatti era plumbeo, colmo di rigonfie nubi grigie che promettevano tempesta.
Più in basso la fredda linea dell’orizzonte lasciava spazio ad un’infinita distesa fangosa, sulla quale biancheggiavano ossa abbandonate.
La terra tremò all’improvviso, mentre un’ombra scura si alzava dietro di lui.
Si voltò di scatto, davanti ai suoi occhi si ergeva una titanica figura: era alta diversi chilometri e la sua sagoma sfiorava le nubi, pareva essere una donna, il suo corpo dalle forme sinuose e perfette era composto da un infinito intreccio di tubi e placche metalliche che continuamente si disintegravano e si sfaldavano per poi riformarsi l’istante successivo.
Il suo volto ieratico non tradiva alcuna emozione e gli ricordò terribilmente quello dei suoi compagni di lavoro.
Dischiuse lentamente le palpebre osservando il mondo con i suoi occhi brillanti, i quali diffondevano una luce identica a quella emanata dal reattore della fabbrica.
Kody osservò per alcuni lunghi istanti quel tremendo sguardo, poi capì: quella stupenda e terrificante figura non era altri che la fabbrica stessa, e lui fino ad allora aveva vissuto nel suo gelido ventre.
La Fabbrica si piegò improvvisamente verso il basso, alzando una delle sue imponenti braccia, per poi calarla con forza verso il fangoso suolo.
Vi fu un secondo terribile fremito e la terra si spaccò in due.
La Fabbrica infilzò lentamente il proprio arto e solo dopo alcuni minuti lo estrasse con calma.
Nella sua mano teneva stretto il collo di una seconda figura che ella stava strappando dall’avido abbraccio della terra.
Era grande e bella quanto la Fabbrica, se non di più, ma il suo corpo non era di metallo, bensì di piante d’ogni forma e dimensione, il suo colore verde e brillante pareva così alieno a quel grigio mondo.
La Fabbrica mollò la presa, gettando la titana sul fango, il ventre nudo di lei si alzò faticosamente ed il suo soave ma spezzato respiro riempì il silenzio di quel mondo morente.
Kody corse verso di lei, la sua sofferenza, e la sua immensa e bellissima figura, abbandonata scompostamente nella melma, lo facevano soffrire a sua volta, ed ora non desiderava altro che raggiungerla ed aiutarla.
Quando era ormai giunto a poche centinaia di metri dal volto della titana, la Fabbrica si mosse a sua volta.
In poche falcate si portò sopra la verde figura, inginocchiandosi sopra di essa ed afferrandola nuovamente per il collo.
Kody le guardò entrambe con orrore, ben conscio della sua impotenza in quella battaglia fra titani.
La Fabbrica alzò un braccio, i tubi e le placche d’acciaio si estesero e si compattarono, generando la forma di una gigantesca lama.
L’istante successivo Fabbrica calò la sua spada sul ventre della gemella, affondandola nelle sue carni.
La verde figura gemette, e quando l’altra estrasse l’acciaio dal suo corpo urlò di dolore, mentre un mare di sangue nero eruttava in ogni direzione.
Lentamente la fabbrica si alzò, abbandonando la sa vittima morente.
Kody pianse disperatamente mentre correva verso la titana abbattuta, ella si voltò verso di lui, dai suoi occhi brillanti come diamanti grezzi fluivano lacrime ad enormi cascate che si diramavano lungo il suo volto per poi allagare il terreno.
Il fiume melmoso investì Kody facendolo quasi cadere e minacciando di trascinarlo via.
Il volto della titana, contratto per il dolore, cambiò lentamente espressione quando vide il piccolo umano, e con non poco sforzo gli sorrise.
<<Cosa ci fai così lontano da casa figlio d’Umanità, e perché piangi vedendomi morire?>> disse lei con la sua voce che pareva a metà fra il rombo di un tuono ed il soffiare d’una dolce brezza.
Lui trattenne a stento le lacrime ed i singhiozzi, e si sforzò di rispondere: <<Io piango perché tu muori, io soffro perché tu soffri ed io non ho saputo salvarti!>>
La titana sorrise. <<Ma tu hai vinto oggi, figlio d’Umanità, oggi la tua eterna nemica giace sconfitta…Mia figlia ha vinto ed avrà il mio sangue…>>
Kody scosse violentemente la testa. <<Io non so chi sia questa “Umanità”, io non so nemmeno chi sia tu, ma so che soffri e so che muori ed il mio cuore spezzandosi mi grida che è sbagliato!>>
La titana corrugò la fronte. <<Ma tu non devi più soffrire, io ero Sofferenza, io ero Morte, ed ora che soffro, ora che muoio, nessuno dovrà più soffrire, nessuno dovrà più morire…>>
Fece una pausa assumendo un’espressione triste. <<Ma nessuno potrà più gioire, nessuno avrà più passioni o speranze, e nessuno amerà più. Io ero Natura…e tu, piccolo mio, tu sei Umanità…>>
Kody crollò in ginocchio nel fango, ormai incapace persino di piangere.
Natura gli regalò un ultimo sorriso e spirando svanì in una nuvola di polvere.
La Fabbrica, altezzosa e bellissima, alzò la sua lama insanguinata al cielo, osservando inespressiva il suo regno morto.
Kody abbassò lo sguardo sul fango: tutto quel che rimaneva della sua vera madre, poco distante, su di un fazzoletto di terra asciutta, un germoglio timidamente fioriva.



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